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Bricolage, narrazione del surreale di Massimo Bignardi

Il gioco delle relazioni tessute dalla nostra fantasia, spesso riesce a fermare il suo transito al di qua della linea oltre la quale l’occhio si perde nei rivoli dell’immaginazione, inseguendo memorie, suggestioni insomma quelle figure che solo la mente ha la capacità di mettere in scena. Si ferma, cioè, per consentire all’occhio, perfetto strumento della visione, di regolare la messa a fuoco delle forme, delle materie, delle superfici, anticipando l’attività dei processi analogici che disegnano nella fantasia altre immagini, ovviamente apparentate a quelle che abitano il mondo conosciuto dall’occhio.

La piccola chitarra dei primi anni del cubismo sintetico che Picasso appese, nel 1912, alla parete del suo studio in boulevard de Clichy, fa ancora oggi immediata mostra del suo essere misero cartoncino, articolata (disarticolata) da piani sbilenchi, frettolosamente incollati o tenuti su da un chiodo a testa larga, oppure da uno spillo o da un punto metallico. La stessa sorte è toccata ai piani dei tableaux-reliefs del 1914, così volutamente e dichiaratamente sagome di legno che architettano l’artificio di improponibili oggetti profondamente radicati ad una realtà dalla quale Picasso, a quella data, non voleva ancora sfuggire, anche se la pratica del bricolage messa in campo dai tableaux suggerirà sul finire del decennio la strada agli attraversamenti del giovane Ernst, conducendolo in tutt’altra direzione, vale a dire sulla soglia del surreale.

Il passaggio è determinante in quegli accelerati passi che le avanguardie, nel breve raggio di due decenni, metteranno in atto e che oggi fanno parte del nostro DNA, in pratica della coscienza dell’artista contemporaneo erede delle novità e contraddizioni del Ventesimo secolo.

Alla sostanza immaginativa e alla pratica del bricolage si ispira da tempo il lavoro di Angelo Maisto: voglio subito chiarire che il termine non minimizza in nessun modo la capacità che il giovane artista ha di affermare nella realtà, la costante centralità dell’immaginazione come forma di esistenza, di identità e che non tiene a confondere la proposta ideativa dalla pratica, dalla manualità anche se quest’ultima richiede una controllata perizia tecnica. Quella di Angelo è un’esperienza che mette in campo una molteplicità di materie, di materiali diversi tra loro che concorrono a smuovere il mondo magico che lentamente e da anni si sta depositando nella sua memoria, nella coscienza. Un processo che accoglie sia la suggestione analogica dettata dalle forme (sostanzialmente quasi tutte riconducibili ad una sorta da ovulo allungato), sia il fascino che la superficie levigata o ruvida riesce ad attivare nella nostra fantasia, ma anche l’accesa gamma cromatica vivacemente costruita dal contrappunto di colori complementari. È un registro di relazioni che consente all’artista di costruire un spazio fisico ove poter mettere in scena pagine di una narrazione surreale, una sceneggiatura che prende dal reale, così come faceva Bosch, le situazioni e i tempi dell’umano, offrendo allo sguardo, all’occhio interiore dello spettatore, ciò che la sua fantasia vede mentre la mente si incammina nei sentieri del fantastico.

Diversamente dagli antenati delle avanguardie storiche che solo in parte hanno tratto dallo sconfinato emisfero dell’immaginazione e del “corpo plastico” del mondo industriale che stava, come l’iceberg del Titanic, lentamente affiorando nella sua immensità, Maisto affonda la sua capacità nel profondo di tale mondo. Si preoccupa, infatti, sia di dare un corpo terreno all’immagine, sia di dotare quest’ultima di schemi capaci – come quelli per il montaggio che troviamo nelle confezioni – di gestire il montaggio. Essenzialmente punta sulla valenza analogica delle forme delle quali si serve per rimettere in scena il surreale racconto di luoghi comuni affidati a forme comuni che sono sottratte alla loro originaria funzione, diciamo al racconto per le quali erano state ideate. Il caso emblematico sono le figure del suo Bestiarium Tiberii, un’opera dello scorso anno, popolato da una nuova famiglia di topolini di boschiana memoria, che ritornano nel Teatro, un piccolo complesso plastico del 2012, nel quale l’artista rimette in gioco, e in tutt’altro mare, il galleggiante per canna da pesca, scritturato come figura chiave del suo recente repertorio. Alla composizione plastica Maisto affianca schemi che per la raffinatezza della pittura, cifrata da una rigorosa educazione al disegno e all’uso dell’acquerello, lasciano pensare alle tavole dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Tavole che cambiano secondo l’oggetto al quale si rivolgono ma che  insistono tutte sulle capacità di un colore trasparente che interpreta ora gli spessori, calibrandone l’ombreggiatura, ora le abrasive ed opache superfici della plastica ad uso industriale che Angelo tratta con una certa versatilità e finanche la metallica inconsistenza della stagnola da forno oppure l’azzurro del neon, il legno della pipa per Pipacottero trasposto  poi in un oggetto-scultura, giungendo alla passamaneria figurata in Ranamobile un acquerello di qualche anno fa.

«I miei personaggi – scriveva Miró – hanno subito la stessa semplificazione dei colori. Così semplificati, sono più umani e più vivi di quanto non apparirebbe se fossero rappresentati con tutti i particolari, e privi dunque di quella vita immaginaria che rende tutto più grande»

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Massimo Bignardi

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